La Croce di Poitiers
di Padre Gerolamo Dal Maso
«In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”» (Lc 14,25-27).
Come commento a questo Vangelo torno al pellegrinaggio sui passi di Montfort...
Nei primi anni del ‘700 Poitiers si presenta come una tranquilla città, carica di storia e istituzioni. Il centro della città, su una collina, vede all’opera una discreta borghesia, impegnata nei suoi traffici. Scendendo verso la parte bassa, lasciando alle spalle il centro benestante, si va incontro ai quartieri più popolari. Si è ancora in città, ma ormai ai suoi margini. Così si entra nel quartiere Montierneuf. In fondo alla via che lo collega al centro, si può notare una grande e tetra struttura. È l’Ospedale Generale.
Varcando la soglia, si apre davanti un grande cortile, brulicante di rumori e di gente. Il primo impatto è mozzafiato: grida, gemiti, odori di piaghe e di rifiuti, colori anonimi eppure vistosi di una umanità lasciata a se stessa. Davanti a noi una folla eterogenea e caotica, come fosse uscita da un quadro di Bruegel: straccioni, sifilitici, pazzi… Lo scarto del mondo sembra qui raccolto e recluso, tutto insieme. Alcune governanti cercano di mantenere l’ordine, ma – a quanto pare – i risultati non sono granché. Regna sovrano il disordine.
Tuttavia, superato il ribrezzo iniziale, la repulsione cede il passo alla curiosità. Allora questa massa dannata e la struttura che l’accoglie comincia a prendere fisionomia. Gli interni di questo bizzarro miscuglio tra il lazzaretto, la prigione e l’ospedale sembrano venire da un incubo di Bosch: le camerate dove senza cura si ammassano corpi incurabili, le cucine nel caos, il refettorio senza orari e regole, i padiglioni freddi e rigidi, per nulla ospitali…
Proseguendo questa pietosa processione ci si imbatte in una porta. Apre su una stanza da cui, stranamente, esce – familiare ed estraneo – un silenzio. Ci attira e vi entriamo.
Davanti a noi si apre una scena inattesa e curiosa: una croce con attorno – ordinate – alcune malandate ospiti, una cieca, una zoppa, una deficiente… Stanno rannicchiate, in ginocchio, davanti alla croce. Con loro stanno una delle governanti e – a voler proprio distinguerlo da uno degli ospiti straccioni – quello che sembra essere il cappellano. Sono tutti in ginocchio davanti alla croce, un grande pezzo di legno grigio, senza crocifisso, con alcune scritte.
Ci avviciniamo. La nostra presenza non sembra dar fastidio. Arriviamo alla croce. Prima di leggerla, ci voltiamo e vediamo i volti consumati ma sereni di questo bislacco e conturbante gruppo di donne. Ci prende un nodo alla gola. Ci voltiamo verso la croce, lentamente, in un movimento quasi lunare in questo luogo che riesce ad essere insieme troppo denso e senza atmosfera. Volgiamo lo sguardo alle parole scritte sulla croce.
Sono parole semplici. Sembra un programma di vita. Oltre alle parole si vedono alcuni simboli. In alto campeggia il monogramma di Cristo, sormontato dalla croce. La scritta, scendendo, si commenta da sola: “Rinunciare a se stessi, portare la propria croce per seguire Gesù Cristo”. Segue un altro simbolo, il monogramma di Maria, sormontato anch’esso da una croce. Arriviamo così al braccio orizzontale della croce. Qui la scritta ha caratteri più grandi: “Se voi arrossirete della croce di Gesù Cristo” e, un po’ più piccolo, “Egli arrossirà di voi davanti a Suo Padre”. C’è poi una litania di croci: “Amore della croce, desiderio delle croci, disprezzi, dolori, oltraggi, affronti, obbrobri, persecuzioni, umiliazioni, calunnie, malattie, ingiurie”.
Ci voltiamo, per un attimo, e ci sembra di vedere nei volti di queste donne sfortunate, la concretizzazione di un tale regolamento. A questo punto, proprio al centro del braccio inferiore, è disegnato il Sacro Cuore, trafitto dalla lancia, coronato di spine e sormontato da un’ennesima croce. Attorno leggiamo: “Viva Gesù Viva la sua croce”. Sotto, appena più grandi, due parole: “Amore divino” e, a seguire, un’altra litania penosa: “umiltà, sottomissione, pazienza, obbedienza intera pronta gioiosa cieca perseverante”. Infine altri due simboli: tre chiodi attorniati da una corona di spine e una stella.
Per ora questo ci basta. Ci fermiamo un attimo in silenzio. La nostra presenza non sembra intonarsi del tutto al tenore di questo gruppo. Così, discretamente, ce ne usciamo. Chiediamo alla prima persona che ci sembra in grado di rispondere, chi siano quelle donne e cosa stiano facendo. «Ah, - risponde quasi sarcastico un tizio - è quel pazzo di Montfort, il cappellano - lo sapete, no? - che ha radunato qualche disgraziata e qualche donna di servizio - mezze pazze pure loro - in quella stanza. Fanno come se fossero suore - ma nessuna ovviamente lo è - e hanno dato come nome alla loro comunità - pensate che ironia… - quello di Sapienza». «Davvero?».